lunedì 21 gennaio 2013

Tesi: "Il terapeuta omosessuale: tra riservatezza e self-disclosure"


Pubblico una piccola parte del mio lavoro di tesi di laurea, intitolato "Il terapeuta omosessuale: tra riservatezza e self-disclosure".
Si tratta di una parte dell'introduzione; chi fosse interessato a maggiori chiarimenti, può inviare un commento o contattarmi direttamente.


[...]Questo caso [ho esposto un mio caso clinico] mi ha fatto riflettere sul tema dell’orientamento sessuale,
facendomi vedere come possa assumere varie forme, e come non sia per
nulla scontato. Anzi, credo si tratti di un elemento molto importante, sia nella
costruzione d’identità propria di ogni individuo, sia all'interno di un percorso di
terapia.
Leggendo la letteratura sul tema, mi sono resa conto di quanto l’opinione,
esplicita ed implicita, del terapeuta circa gli orientamenti sessuali possa
influenzare il corso della terapia stessa.
In un articolo intitolato “L’influenza del genere del paziente e dell’analista sulla
relazione analitica”, Kernberg (1998) descrive l’importanza di tenere in
considerazione il genere e l’orientamento sessuale di entrambi i partecipanti
della coppia terapeutica. Egli evidenzia come, a ciascun tipo di “abbinamento”
(terapeuta uomo con paziente donna o uomo, terapeuta donna con paziente
donna o uomo, terapeuta uomo o donna con paziente uomo o donna
omosessuale), corrispondano movimenti transferali e controtransferali
differenti. Secondo l’autore:

La conseguenza di gran lunga più importante della differenza di genere
tra paziente ed analista risiede a mio parere nei tempi e nell’intensità
dello sviluppo dei movimenti transferali di tipo erotico, e delle relative
difese (p.186).

Quindi per l’autore con il termine genere non si intende solo l’elemento di
realtà, il dato biologico dell’essere maschio oppure femmina, ma allarga il
quadro includendo altre dimensioni quali l’identità di ruolo sessuale
(dipendente più che altro da fattori culturali), l’intensità del desiderio sessuale
e la scelta dell’oggetto d’amore.
Durante l’articolo, Kernberg tenta di riassumere le osservazioni degli effetti sul
transfert e sul controtransfert delle differenze di genere tra analista e paziente,
sottolineando come questi effetti siano modulati dalla continua influenza della
patologia e dello stile personale di entrambi i partecipanti al processo analitico.
In queste descrizioni l’autore include anche riflessioni su pazienti omosessuali,
sia maschi che femmine, ma non accenna all'omosessualità del terapeuta,
almeno non in modo significativo.
Questo ha acceso la mia curiosità, spostando la mia attenzione proprio verso
l’orientamento sessuale del terapeuta, con particolare accento
all'omosessualità dell’analista. Ha perciò preso il via un lavoro di ricerca in
letteratura sul terapeuta omosessuale; devo dire che non è stato un lavoro
facile, in quanto, per molte ragioni che saranno esposte nel corso della tesi, la
letteratura sul tema è ancora piuttosto scarsa.
Durante questa ricerca, ho inizialmente ho affrontato il modo in cui la teoria
psicoanalitica, da Freud fino ai giorni nostri, si è approcciata all’omosessualità.
È stato curioso notare che da un Freud, pur se contraddittorio, aperto e
moderno rispetto all’epoca vittoriana, si sia poi entrati in un clima teorico
patologizzante. L’omosessualità veniva vista come una patologia, da curare,
da modificare, e le cui cause andavano cercate nella strutturazione delle
relazioni primarie infantili. E pensare che Freud diceva:

L’omosessualità non è certo un vantaggio, ma non è nulla di
vergognoso, non è un vizio, né una degradazione, e non può essere
classificata come malattia […](Jones, 1953, p.637)

E ancora:

L’impresa di trasformare un omosessuale pienamente sviluppato in un
eterosessuale non offre prospettive di successo molto migliori
dell’impresa opposta (1920, p.145).

Eppure, i teorici successivi non hanno raccolto tali osservazioni, elaborando
teorie che vedono l’omosessualità e l’omosessuale come qualcosa di
“sbagliato”, da curare. Questa tendenza si è protratta fino ai giorni nostri,
anche all’interno del panorama italiano; un esempio di ciò sono le cosiddette
“teorie riparative”, che fino ad ora non hanno ancora dimostrato
scientificamente la loro efficacia.
Nel testo ho poi sottolineato come tali tipi di teorie, spesso siano il riflesso di
una tendenza omofobica propria di chi le elabora, che maschera la sua
omofobia da concetto scientifico. Non stupisce quindi che molti terapeuti
omosessuali, facendo prevalere la loro stessa omofobia interiorizzata, non
siano mai usciti allo scoperto, oppure addirittura abbiano cercato in tutti i modi
di nascondere il loro orientamento sessuale ai pazienti ed ai colleghi. Negli
ultimi anni questa tendenza sta cambiando, sia perché gli istituti di
specializzazione si sono aperti anche a candidati omosessuali (anche se solo
dagli anni Novanta), sia perché alcuni di loro si sono chiaramente rivelati
attraverso i loro scritti (vedi Isay, Drescher, Firetto, ecc).
Questa maggior apertura, però, apre il problema di come gestire la rivelazione
del proprio orientamento sessuale all’interno del lavoro analitico; è necessario
comunicarlo ai pazienti? Con quale modalità?

sabato 19 gennaio 2013

Significato psicologico del baratto

Ultimamente ho (ri)scoperto la vecchia arte del baratto. E' stata una "scoperta" che mi ha fatto tornare alla mente che in realtà, da bambina, lo facevo molto spesso: scambiare figurine, biglie e tanto altro con altri bambini. Poi, con l'inizio dell'uso del denaro (da parte mia), gli scambi si sono fatti sempre più rari, fino a scomparire del tutto.
Negli ultimi anni c'è stato un fiorire di siti e blog che propongono il baratto, in particolar modo come mezzo per far fronte alla crisi economica. Dando un'occhiata qua e là su internet, mi sono accorta che esiste una fitta rete di persone che barattano, e con buoni risultati.
Mi sono quindi chiesta, data la buon ampiezza del fenomeno, che riflessi psicologici possa avere l'utilizzo del baratto invece dell'acquisto.
Come prima riflessione, mi sento di dire che ci hanno sempre insegnato che ogni cosa ha un costo, mentre se pensiamo al baratto, cambiamo prospettiva ed emerge che ogni cosa non ha un costo ma un valore. Si tratta di una differenza non solo di significato, ma anche di senso. Il valore è infatti una dimensione personale, che ognuno attribuisce a qualcosa in base alla propria personalità ed alla propria storia. Nella dimensione del valore viene coinvolta la parte affettiva, mentre nel costo e nell'acquisto la parte cognitiva.
Secondariamente, a mio avviso c'è molta differenza tra lo scambiare un oggetto con del denaro e lo scambiare un oggetto con un altro oggetto. Nel baratto, infatti, si tratta sempre di scambi di cose personali, nel senso di appartenenti a quella specifica persona. E' quindi uno scambio molto più "personalizzato" rispetto allo scambio col denaro (il denaro ha infatti un "valore" prestabilito, uguale per tutti i membri della società).
Ma quando parliamo di interazione tra le persone, non parliamo forse di scambio di parti di sè ("cose personali") con l'altro? E' possibile quindi pensare al baratto come una sorta di "nuovo" mezzo di relazionarsi agli altri, più vicino al funzionamento soggettivo che non l'acquisto, più affettivo e meno cognitivo.
In tempi di crisi, si riscopre l'arte di arrangiarsi, e si riscoprono anche, almeno un pò, le relazioni personali.